domenica 30 agosto 2015

Televisione, televisione






“La tua casa è molto bella!”
“Grazie”, rispose Francesca, “merito anche delle mie coinquiline. Siamo diventate una sorta di comunità, pensa, mi danno una mano anche con i bambini, sono stata davvero fortunata...”
“Ti riferisci ad Alessandro?”
“Sì, Alessandro, e tutti gli altri. A volte dallo studio mi chiamano senza preavviso, e loro si preoccupano di tenerli occupati. E quando non posso uscire perché sono stanca, fanno a gara per portarli a zonzo. Ormai siamo diventate come sorelle!” Mentre pronunciava questa frase Francesca mosse il braccio verso la finestra, come se intendesse domandare alle prime rondini una conferma alle sue parole.
“Dai, è una bella fortuna”, rispose impensierito Riccardo, “anch’io ho avuto una baby sitter, ma era una nazista travestita da Mary Poppins. Del resto miei genitori hanno sempre lavorato, così io ed i miei fratelli abbiamo trascorso molto tempo da soli.”
“Sono i ritmi imposti dalla società”, rispose Francesca sedendosi sul letto, “i bambini sono lasciati soli oppure in compagnia di baby sitter, perché i genitori devono lavorare per conservare un alto standard di vita. S’illudono che i regali possano sostituire il tempo non trascorso con i figli, ma quest’idea è una sciagurata sciocchezza...”

Intanto il piccolo Alessandro, forse annoiato dai quei discorsi, pensò di ritornare ai suoi compiti. Nel frattempo i due ragazzi andarono nel soggiorno, invaso intensamente dalla luce del pomeriggio.
“Oggi per una famiglia è complicato trovare un lavoro, figuriamoci due. Talvolta sono le madri a lavorare ed i mariti restano a casa con i bambini, in ansia per il loro licenziamento, la mobilità o la cassa integrazione. Un sovvertimento forzato del patriarcato, dove gli stessi figli assorbono la frustrazione forzata del genitore, legata ad una crisi economica strutturata e difficile da superare.”
“Sì, in effetti, la tua è una lettura corretta, valida ed allo stesso tempo preoccupante...”
“Non è necessario preoccuparsi troppo, soprattutto non serve a nulla. Tuttavia i veri problemi restano, muri difficili da oltrepassare, campi minati in cui la mappa del passaggio è stata bruciata.”
“Ti riferisci ai problemi economici generali?” Domandò Riccardo, muovendo le proprie mani come se stesse cercando di afferrare qualcosa sospeso a mezz’aria.
“No, piuttosto al decadimento morale in cui siamo scivolati. Insomma, l’individuo è destinato a tormentarsi, e la depressione fa allegramente il nido nelle nostre menti. Le persone sono frustrate, incapaci di reggere gli alti standard imposti dalla logica dei consumi... Vuoi una dimostrazione concreta? Guarda le statistiche, leggi quanto è aumentato l’uso dei psicofarmaci negli ultimi anni, una crescita quasi esponenziale!”

Francesca accese una sigaretta e ne offrì una a Riccardo, dunque cambiò posizione e si accomodò, ponendo la schiena in posizione eretta e le gambe incrociate.
“Questa cultura, che preferisco chiamare non cultura, invita le masse ad acquistare prodotti su prodotti. Non siamo cittadini dotati di diritti, ma semplici consumatori. Gli oggetti sono trasformati in status symbol, indicatori dell’appartenenza alle nuove classi sociali. Intanto i traguardi sono sempre più inaccessibili, e quanti non riescono a raggiungerli si sentono frustrati, sviluppando risentimento per la loro ghettizzazione, rispetto a coloro che si accaparrano beni di lusso.”
Per un attimo Francesca smise di parlare, osservando il lampadario con uno sguardo particolare, come se vedesse appeso qualcosa che non riusciva a focalizzare. Quando ricominciò il suo discorso, Riccardo pendeva letteralmente dalle sue labbra.

“Le multinazionali giocano facile, indicando modelli di vita funzionali al consumo: ci mostrano famiglie sprofondate nel lusso, case con giardino, dove tutti sono bellissimi, sorridenti, senza nessun problema che non sia quello della prima colazione, o della necessità di canali televisivi via cavo con relativo sconto. Famiglie perfette, cani di razza, uomini e donne dai sorrisi smaglianti, bambini biondi e paffutelli. Insomma, tutto ciò che avrebbe desiderato un regime nazifascista come risultato del suo programma di eugenetica. Naturalmente il tutto non è espresso in questi termini, ma in questo modo arriva subdolamente alle nostre menti. E’ come un messaggio subliminale, lo interiorizziamo senza accorgercene. Possiamo anche essere apertamente critici, ma tutti siamo vittime passive della sua logica...”

Francesca a questo punto mosse le mani a grande velocità, come se stesse compiendo una esibizione pubblica di arti marziali.
“Non possiamo comprenderlo, ma siamo incentivati a scontrarci gli uni con gli altri, una guerra senza esclusione di colpi. Tutti trascinati in un’insensata competizione, il cui terreno di scontro è l’accumulo di beni materiali, dalle lavastoviglie alle automobili, dai vestiti alle case, dai televisori per arrivare sino agli orologi da polso. Chi avrà un maggior numero di beni non otterrà nessun premio, se non l’illusione di appartenere ad una casta, esistente nel manipolato ordine della società dei consumi.”
“Ovvero?” Domandò Riccardo spegnando la sua sigaretta.
“Ovvero... Quali parole usare?” Disse Francesca guardando di lato, come se stesse considerando l’encefalogramma di una mente disturbata. “L’individuo è insoddisfatto, e cerca di combattere questa condizione con vari comportamenti, molti dei quali del tutto fuorvianti. Tra questi, quello più praticato è l’accumulo di oggetti, perché la pubblicità si fonda proprio sull’insoddisfazione. Oggi gli operatori del mercato studiano la psiche umana, e conoscono bene questa condizione mentale. Per questo, pianificate tecniche di marketing incoraggiano il desiderio dei prodotti, con un continuo bombardamento emozionale. Che so... Considera l’evoluzione dei cellulari, per quale motivo il consumatore non si accontenta delle semplici funzioni di una volta? La risposta è sotto gli occhi di tutti: la pubblicità stimola nuovi bisogni, un cellulare che non può collegarsi alla rete è immediatamente obsoleto. Nella corsa al profitto le multinazionali investono sul marketing, infatti, i prodotti hanno spesso le medesime caratteristiche, dunque la guerra per il profitto è spostata su un altro campo di battaglia...”

“Ingenti risorse sono spese per le ricerche, perché acquisire nuove fette di mercato dipende dai desideri somministrati con la pubblicità. Qui entra in gioco la psicologia... Il prodotto è studiato per diventare parte integrante della personalità, affinché questa visione si mescoli con l’immagine che vorremo avere di noi stessi. Chi si affida ad una determinata marca, in realtà, si affida ad una personalità che intende emulare nel breve o lungo termine. Per questo chi compra un frullatore “x” si sente una persona affidabile, chi calza “y” è un manager, utilizzare un dopobarba per sentirsi persone decise, magari che non devono chiedere mai.”
“Insomma, in base al tuo ragionamento”, commentò Riccardo, ”le persone sono indotte ad acquistare per confermare ciò che credono di essere, o ciò che vorrebbero diventare...”
“Hai afferrato il concetto! Ci illudiamo di avere una personalità fissa, immutabile e statica, ed in base a ciò orientiamo non solo i nostri comportamenti ma persino i nostri acquisti. Immagina un individuo che s’identifica con la figura del ribelle, per lui possedere una Harley Davidson sarà una conferma del suo immaginario “io”. Tuttavia la personalità è ben lontana dalla staticità, le nostre inclinazioni caratteriali cambiano in continuazione, anche in relazione alle esperienze vissute...”

Riccardo zittì Francesca con un ampio gesto del braccio, come un inquisitore capace d’interrogare quattro presunti eretici, per poi condannarli al rogo nel nome di una qualsiasi divinità.
“Il marketing ci parla come se avessimo una personalità statica”, commentò Riccardo roteando le spalle come un medium, “dunque i nostri acquisti devono essere in sintonia con questa personalità, che abbiamo o desideriamo avere...”
“Certo”, rispose Francesca agitando le mani, “ed in cambio otteniamo il sogno di un “io” preconfezionato, incartato dalle massicce dosi di pubblicità. Il marketing è inserito perfettamente nel meccanismo: si sono sgretolate le fondamenta della civiltà occidentale, e l’uomo brancola nel buio alla disperata ricerca di un rifugio, di una qualsiasi dottrina cui aggrapparsi. Si è visto privato di qualsiasi ideologia, da quella religiosa a quella politica, e sono rimasti i dettami, gli stereotipi e l’indottrinamento massmediatico della civiltà dei consumi. Nel passato il senso di colpa ci spingeva nelle cattedrali, ora la stessa inquietudine ci trascina verso i centri commerciali, oppure verso la più vicina rivendita di dispositivi elettronici...”

Per un istante Riccardo meditò sulle parole di Francesca. Quante volte lui ed Elisa avevano varcato le soglie dei grandi centri commerciali, solo per vincere quel particolare senso di vuoto, quella sottile inquietudine capace di consumarli lentamente. Quante volte aveva acquistato oggetti corrispondenti all’immagine che aveva di se stesso, un’immagine frutto solo della sua fantasia. Quante volte aveva stupidamente pensato: “No, non mi vedo con quella marca, non sono una persona del genere...”
“Insomma”, proseguì Francesca, “i centri commerciali sono i nostri punti di raccolta e d’incontro, dove esorcizziamo tanto le paure quanto il dolore esistenziale. Le moderne tecnologie ci abbagliano e ci stimolano, accendono la nostra fantasia ed i sensi, le carte fedeltà sono il lasciapassare verso un mondo di lussi e frullatori con molteplici funzioni...”

Dopo pochi istanti Riccardo si accorse che Francesca fissava il televisore, con espressione preoccupata ma totalmente decisa.
“Vedi Ricky, quella scatola magica, è uno dei principali problemi. La televisione è regolarmente collocata in ogni abitazione, bar, ovunque, e c’invia ossessivamente i messaggi/causa della nostra psicopatologia commerciale... La televisione è il nuovo maestro, se Edmondo De Amicis fosse vissuto nella nostra epoca, avrebbe di certo descritto il rapporto tra un ragazzo ed un televisore ultrasottile, piazzato sulla parete angolare di un salotto Ikea.”
“Dunque non più la famiglia e la scuola”, disse Riccardo osservando un manifesto di Janis Joplin, “ma proprio la televisione come principale agenzia educativa...”

Brano tratto da "Eclissi", di Vincenzo M. D'Ascanio

mercoledì 3 giugno 2015

Prefazione.



M’è piaciuto molto, e per diversi motivi, leggere il nuovo romanzo di Vincenzo D’Ascanio, a cui sono grato di avermi dato la possibilità di scrivere la prefazione.
Il primo motivo è il più importante: m’ha fatto pensare, m’ha divertito, m’ha fatto insomma compagnia, il che è quanto si richiede da un buon libro.

Il secondo è che Vincenzo ambienta nella mia città vicende molto metropolitane, calabili senza forzature in altri contesti urbani, e questo mi fa sentire la città in cui sono nato, vivo e lavoro come parte del villaggio globale, moderna, “connessa” si potrebbe dire, le conferisce insomma una sorta di valore aggiunto restando, per le descrizioni dei luoghi e di alcuni comportamenti sociali, inconfondibilmente Cagliari.

Il terzo motivo è legato al lavoro che faccio, lo psichiatra.
Il modo in cui la sofferenza del protagonista Riccardo viene affrontata, così estraneo al luogo comune della depressione come patologia biologica, sentenza a vita perché conseguenza di un gene malato e che a vita per questo richiede trattamenti farmacologici, mi ha confortato.
E’ una sofferenza a mio avviso correttamente interpretata come sentinella di un vuoto di valori ragione di riflessioni ed approfondimenti temuti, e per questo sinché possibile evitati.

Il conformismo della famiglia del protagonista omologa e irrigidisce i personaggi, rendendoli immutabili nel tempo, e a questa sclerosi, a differenza della sorella che vi si adatta, Riccardo reagisce “producendo” un sintomo, l’ansia, che progressivamente, per esaurimento, si fa depressione.
Ma, soffocando nella rigidità, avidamente (ed all’inizio inconsapevolmente) si affida con coraggio a quel filo d’Arianna che è Francesca, in uno dei primi incontri oracolo d’una verità non facile da accettare: l’io è fluido, mutevole, cambia in base alle nostre esperienze, alle nostre relazioni, e non può trovare realizzazione soddisfacente in modelli preconfezionati.

Il resto del romanzo è la dichiarazione di una seconda verità, altrettanto difficile da vivere e forse ancora più lontana dall’ariflessivo paradigma del tutto e subito (nel quale rientra il mito della pillola della felicità): l’abbandono della dimensione esistenziale inautentica lontana dai nostri bisogni più profondi per il traguardo della libertà d’essere sé stessi richiede tempo, esperienze, sofferenza, quando lo si voglia raggiungere rifiutando i panni di un narcisismo irriguardoso.

E dunque nella vivacità della narrazione il doloroso incedere delle vicissitudini di Riccardo, il tempo che Francesca chiede per le sue decisioni perdono le caratteristiche d’incomprensibilità e distanza che alla malattia mentale attribuisce il modello medico, freddamente osservatore ma incapace di comprendere, per assumere una vicinissima valenza esistenziale, un senso condivisibile di necessità al quale nessun essere umano può sottrarsi nel tentativo di conquistare sé stesso.
Ed altrettanto condivisibile ed in questo senso comprensibile m’é parso allora il teatro dei personaggi che circondano e sostengono i due protagonisti.

Maschere dai caratteri forti, rappresentano tanto tipi psicologici quanto la possibilità di nutrimento e ricchezza sempre presente nell’incontro con la diversità, nel dialogo con chi è altro da noi, non importa con quanta ambivalenza e fragilità portato avanti quando questo avvenga con sensibilità e partecipazione.

Ecco dunque a mio avviso in questa volontà di comprendere, di rivivere con i personaggi e nei personaggi il delicato tema della sofferenza psichica la cifra del romanzo: la malattia si muta nella dolorosa fatica della ricerca, e della scoperta, della propria identità.
Peregrinare dall’esito forse incerto, ma pieno di fascino se vissuto nella consapevolezza della propria umana finitezza.

Tanto ancora resterebbe da commentare: il movimento edipico che governa le relazioni familiari; l’attraente potere gravitazionale del trauma fisico, sempre presente nei romanzi di Vincenzo D’Ascanio, così attuale, così indicativo del nostro bisogno d’eterna adolescenza; il tema della sfida, evento utile alla crescita solo se imprevedibile nei risultati… e altro ancora cene sarebbe.
Ma come il mio collega così ben descritto nelle pagine avanti, non ho che un piccolo ruolo in questo evento creativo, e volentieri lascio spazio alla fantasia dell’autore.


Riccardo Curreli

Sintesi del romanzo.



Il romanzo ha come protagonista Riccardo, lasciato dalla sua ragazza senza un motivo preciso. Dopo questo fatto il ragazzo cade in un periodo di forte confusione, imputata dallo stesso a quell’improvviso abbandono che l’ha catapultato nella disperazione.

Tuttavia, col trascorrere del tempo, lo stesso Riccardo comprenderà che i suoi problemi non sono legati alla sua ex ragazza. In ragione dell’educazione ricevuta e dell’ambiente circostante, Riccardo ha assorbito tutti i dettami del consumismo, e la sua frustrazione è principalmente legata al mancato acquisto di questo o quell’oggetto, ovviamente superfluo per la sua esistenza.

Riccardo comprende questi aspetti del suo carattere attraverso un cammino spirituale, che non completerà in solitudine. Sulla sua strada incontrerà Francesca, Accio, Floriana, Tony ed Andrea, tutte persone dalla mentalità alternativa, che sottopongono ad una dura critica il sistema in cui viviamo. In base alle loro concezioni i mass media, le agenzie pubblicitarie ed i programmi televisivi servono solo ad orientare l’individuo verso determinati acquisti, anche in ragione delle feroci politiche di marketing. Questo porta lo stesso individuo alla disperazione, allontanandolo dalla sua reale natura sociale.


In particolare, con i suoi nuovi amici Riccardo parte per un campeggio alternativo, e proprio qui rimetterà in discussione tutta la sua esistenza. Sino a quel momento aveva indossato una maschera, e quando se ne libererà, scoprirà un mondo nuovo, di cui prima non sospettava nemmeno l’esistenza. Si ritroverà pronto per vivere una rinnovata passione proprio con Francesca, un amore che gli darà la forza per rinnovare ulteriormente se stesso, ed adottare quelle decisioni che cambieranno per sempre la sua esistenza.

Il risveglio senza di lei....




Riccardo aprì gli occhi, e si trovò come sempre nella sua camera ricca di oggetti, alcuni dei quali scintillavano nella luce fredda del mattino. Accanto a lui non c’era Elisa, ma non era ancora riuscito ad abituarsi. Ogni volta, quando si svegliava, si aspettava di trovarla nella sua consueta posizione, coricata sul fianco sinistro, con i lunghi capelli sparsi sul cuscino. Lui allora l’avrebbe abbracciata con delicatezza, per capire se dormiva oppure era già sveglia. Elisa, invece, non c’era e non ci sarebbe più stata, perché la sua ragazza l’aveva definitivamente lasciato. “Dobbiamo prenderci una pausa”, aveva detto, “voglio ritrovare i miei spazi vitali”. Spazi vitali... Solo Hitler aveva usato quel termine, e non l’aveva fatto con buone intenzioni. Era abitudine di Elisa utilizzare termini complessi, ed era abitudine di Riccardo non comprenderli sino in fondo, lasciando spazio a dubbi ed interpretazioni. Tuttavia quelle parole, “spazi vitali”, gli erano rimaste decisamente sullo stomaco, come un pranzo di gala mal digerito. Per alcune notti avevano dormito ancora insieme, poi lei aveva deciso che non dovevano più vedersi, senza chiarire cosa sarebbe accaduto quando avrebbe finalmente trovato questi famosi spazi.

La decisione l’aveva colto impreparato, ma da qualche tempo era entrato in un periodo in cui l’assenza di forti emozioni era una costante. Forse era stato quello il motivo per cui aveva deciso di andarsene, forse la loro vita era diventata sin troppo monotona? Alla domanda non trovava risposta, ma sapeva che il loro rapporto si era adagiato su un livello scontato ed irreversibile. Nonostante ciò Riccardo l’amava ancora, ma per abitudine od eccessiva sicurezza aveva dato troppe cose per scontate. Stavano insieme da quasi cinque anni, in effetti, dal primo anno dell’Università, ed il ragazzo nemmeno ricordava la vita senza di lei. Tutto quello che facevano lo facevano insieme: andavano a lezione (dove si erano conosciuti), frequentavano gli stessi amici, socializzavano nei medesimi ambienti. Probabilmente questa simbiosi era stata la causa principale del dissolversi di un amore che pareva indistruttibile.

Riccardo persisteva ad osservare il soffitto, come se da un momento all’altro potessero comparire le risposte che non riusciva a trovare. Cercava di mettere ordine nella propria mente, sconvolta da un sogno di cui gli restavano solo pochi sprazzi. Ricordava Elisa che gli urlava qualcosa, ma non ricordava affatto cosa. L’aveva sognata decine di volte, forse perché quella stanza gli parlava continuamente di lei... Non era una camera particolarmente accogliente, troppi oggetti la riempivano, facendola sembrare una sorta di rivendita di apparecchiature tecnologiche. Tuttavia lui era affezionato ad ogni centimetro quadrato, sopratutto alla finestra con vista sul quartiere, ai numerosi libri disposti disordinatamente sul comodino, alla foto dei suoi amici d’infanzia appesa accanto alla porta. Gli altri oggetti erano status symbol, moderni riconoscimenti del suo prestigio e di quello della sua ricca famiglia. Dopo pochi istanti il suo sguardo si posò sul televisore LED quarantadue pollici, fissato alla parete opposta. Ora era spento, e sembrava un quadro dedicato all’impenetrabile oscurità della notte. Era stata Elisa a scegliere modello, marca e dimensione, perché era sempre lei a decidere i loro acquisti... Lui accettava volentieri il ruolo di spettatore pagante: ad ogni acquisto entrambi si sentivano elettrizzati, liberi, e per un pugno di giorni il loro umore galleggiava sulla consapevolezza di quel nuovo dispositivo. Naturalmente non avevano bisogno di quella miriade di prodotti, la loro era sopratutto una necessità psicologica, un rito pagano da celebrarsi nei centri commerciali, moderne cattedrali del culto consumistico. Per entrambi fare shopping era come un’abluzione purificatrice, e soltanto nel momento della scelta si sentivano del tutto assolti.

A dispetto di molti insensati ed inopportuni acquisti, se non altro quel televisore era servito a trascorrere il tempo. Diverse volte lui ed Elisa avevano visto programmi durante le fredde sere invernali, oppure le torride notti estive. Elisa riusciva raramente a restare sveglia per più di mezz’ora, si appoggiava al petto di Riccardo e sprofondava nelle sue illusioni, magari sognando l’ennesimo cellulare od una sontuosa borsa all’ultimo grido. Talvolta Riccardo si sorprendeva ad osservarla, perché Elisa era bella come una principessa araba. Quando poi dormiva, e con le sue frasi inopportune non rovinava tutto, sembrava davvero un angelo sceso dal cielo per un viaggio tutto compreso.
Riccardo abbandonò il letto, cercando di scacciare ricordi che bruciavano come carboni ardenti. Nell’appartamento non c’era nessuno, Giuliano era già andato al tirocinio per consulente, mentre Marco doveva essere a lezione. Come abitudine il bagno era stato trasformato in acquitrino, tuttavia era libero, evento più unico che raro. La mattina Giuliano battagliava tenacemente con la ribelle capigliatura, ma nonostante gli sforzi ne usciva perdente e più spettinato di prima. Suo fratello Carlo, invece, era ancora addormentato e sino alle dieci, per svegliarlo, sarebbe servita la detonazione di qualche mina anticarro.

Riccardo si guardò il palmo delle mani con la stessa espressione di un veggente, dunque si appoggiò al lavandino ed osservò l’immagine riflessa, stentando a riconoscersi. Mentre si lavava il viso ricordò all'improvviso il sogno di quella notte. Lui ed Elisa passeggiavano su una spiaggia deserta, ma lei non voleva tenergli la mano. Tra loro incombeva un’atmosfera inquietante, come se da un momento all’altro dovesse accadere l’irreparabile. La luna le illuminava il bel viso, ed Elisa continuava a gesticolare con le mani, come se stesse discutendo con un fantasma della sua mente. Riccardo provava ad avvicinarsi ma era sistematicamente respinto, e nei suoi occhi leggeva la medesima espressione di quando parlarono per l’ultima volta.

Infastidito ed appesantito andò in cucina, dove numerosi piatti sporchi facevano bella mostra dal lavandino. Una busta colma di spazzatura penzolava tristemente dalla maniglia della finestra: ormai il cestino era considerato un optional, di cui nessuno intendeva più servirsi. Riccardo considerò che la giornata non potesse iniziare in modo peggiore. Almeno non c’era Carlo, che durante la colazione si massaggiava generosamente i genitali. Cercando di non pensare a nulla osservò il latte bollire, poi attese che il caffè fosse pronto, con uno stato d’animo quantomeno demoralizzato. Infine, sconfitto dall’apatia, fece colazione senza sedersi e mangiando il più rapidamente possibile. Ritornò in camera ed aprì il cassetto del comodino, dove erano disposti ordinatamente gli ansiolitici prescritti dal suo compiacente medico. Nell’ultimo periodo non era stato bene: soffriva di una grave insonnia, e talvolta era vinto da un’incontrollabile agitazione.


Una pastiglia dopo colazione, una dopo pranzo ed una dopo cena, possibilmente senza saltare gli orari. I farmaci gli avevano restituito il sonno ed avevano allentato gli attacchi di panico, ma un malessere latente continuava ad imperversargli nella mente come un ospite incivile ed indesiderato. Aveva sofferto del male oscuro sin dai tempi delle superiori, e dopo un periodo di relativa pace il problema si era ripresentato, in concomitanza con l’allontanamento di Elisa. Lei gli aveva dato una certa sicurezza, spazzata via dall’incrinarsi del loro rapporto. Senza rendersene conto quella ragazza era il più efficace di tutti gli antidepressivi, prescritti nel lungo rapporto col lato più fragile della sua personalità.

Vincenzo M. D'Ascanio, brano tratto dal romanzo "Eclissi".

La bizzarra famiglia di Riccardo.




Riccardo si stava lasciando prendere la mano, aveva mischiato tanti farmaci da stendere un elefante. Se un medico l’avesse visitato in quel momento, gli avrebbe concesso poche ore di vita. Quando si sedette a tavola faticava a tenere gli occhi aperti, era come se un pescatore pazzo gli avesse sistemato due piombini sulle palpebre. Tutt'intorno era come calata una coltre di nebbia, ciò nonostante riusciva a mantenere un contegno e questo era sufficiente. Quando arrivò il padre si alzò per stringergli la mano, gesto formalizzato da tempo, come un marito metodico che regala i fiori nel giorno di S. Valentino. Nei confronti del genitore provava una bizzarra sensazione, normalmente ne subiva il forte carattere, ma quella sera era come se si trovasse dinanzi ad un clown che avesse esaurito battute, barzellette e scherzi.

In seguito arrivò la sorella Cecilia, che indossava abiti dai molteplici colori e naturalmente delle più costose marche. A Riccardo parve una valletta un po’ mignotta, e gli scappò da ridere. La ragazza reagì con risentimento, come se avesse appena ricevuto una frustata sulla schiena.
“Ti faccio molto ridere, ma tu ti sei visto?”
“Ma figurati, Cecilia, non ridevo di te. Ho ricordato un episodio di questi giorni.”
“Raccontacelo, dai”, disse la sorella con un pizzico d’ironia.
“Magari più tardi. Adesso sono un po’ stanco, non ho voglia di parlare, scusami...”
Cecilia abbozzò un sorriso complice, e nonostante fosse in totale balia dei farmaci, Riccardo dimostrò a se stesso che poteva gestire le situazioni. Tuttavia doveva mantenere il controllo, con suo padre avrebbe potuto imboccare una strada senza ritorno. Si sentiva come una sorta di equilibrista gitano, in bilico su un filo sospeso a quaranta metri di altezza e senza protezione.

“Allora Ricky, come vanno le cose?”, chiese il padre, dopo avergli domandato qualche informazione sul fratello Carlo, in eterna lotta con gli esami universitari.
“Abbastanza bene, al call center è un tira e molla generale...”
“Tua madre mi ha detto dei problemi con quella tua ragazza.”
“Ex... Ormai non sono problemi, è una situazione di fatto.”
“Non pensarci, le donne vanno e vengono, come le nuvole. Vedrai, tra qualche settimana l’avrai già dimenticata... Piuttosto veniamo alle cose serie, parlami del televisore appena acquistato, Carlo mi ha detto che si tratta di un quarantadue pollici a schermo piatto...”
“Si, è un LED ultima generazione della SAMAS, spesso come una sottiletta.”
“Ottima scelta, davvero ottima scelta, tale padre, tale figlio. Certo, forse avrei acquistato qualcosa di più grande, ma per la tua stanza può andare. Sei entrato in soggiorno? Hai visto il nuovo televisore? No? Copre quasi tutta la parete, forse per apprezzarlo sarebbe meglio guardarlo dal balcone, ma certe immagini, ed i suoni... L’altra sera abbiamo visto “Salvate il soldato Ryan”, mi sono immedesimato talmente tanto che se avessi avuto una bomba a mano l’avrei lanciata nella casa del vicino. In pochi possono permetterselo, stiamo diventando una famiglia sempre più rispettabile...”
In seguito a questo commento intervenne la signora, con lo stesso tono di una casalinga brasiliana, che battibeccava aspramente con un gruppo di narcotrafficanti adolescenti.
“Dai, caro, sempre con questa storia, non puoi considerare la rispettabilità di una famiglia in base al televisore del salotto, oppure analizzando i loro possibili acquisti...”

“Come no?” Rispose contrariato il capofamiglia, ponendo una mano in avanti come a voler simulare un saluto nazista. “Pensa al popolino delle periferie, non hanno nessuna possibilità di decidere, scimmie chiuse in gabbie senza serratura. Solo famiglie come la nostra sono realmente libere, noi abbiamo la dignità dell’opzione, possiamo decidere cosa comprare e scegliere tra diverse opportunità. Quella gente spaventata, invece, arretra in un angolo, mentre noi pratichiamo e progrediamo! Siano benedetti i centri commerciali, dove possiamo trovare quella libertà negata dalle litanie religiose, e della sinistra più conservatrice...”
“Tutti sappiamo che dignità e povertà non sono due opposti, ma possono convivere insieme!” Ribatté seccata la donna, che ostentava la mascella destra come se stesse invitando il marito ad assestarle un potente gancio destro.

“Certo, per essere persone dotate di moralità non occorre essere benestanti. Ma qui stiamo parlando di libertà, non solo di dignità. Senza i nostri soldi dovremo continuamente accontentarci, sbavare davanti alle pubblicità delle vacanze, dei televisori o magari delle auto. Quando riuscirò ad aumentare ulteriormente il nostro patrimonio allora ci sarà da ridere, potremo permetterci la maggior parte dei prodotti esistenti in commercio e nessuno, dico nessuno, potrà strapparci le nostre conquiste! Insomma, considera Cecilia, è la più invidiata della classe, le sue amiche darebbero un braccio per vestirsi come lei, ed avere alcuni dei suoi dispositivi. Scommetto che quando ha portato il suo nuovo cellulare a scuola, per poco non le hanno fatto un’ovazione. Questa è vera libertà, questa è soddisfazione, stiamo discutendo di autentica evoluzione...”

Nel frattempo Riccardo, pur frastornato dall’abuso dei farmaci, ascoltava e prendeva atto della concretezza del discorso. Sin da quando era bambino, aveva ascoltato il padre esporre quei concetti, e non comprendeva perché la madre gli si opponesse. Raggiungere un alto standard di vita è un traguardo, un valido obiettivo da raggiungere, questo è il riassunto di ogni rapporto sociale. Chi non ci riesce è uno sconfitto, un reietto, un individuo scaraventato e perso in uno sconfinato oceano di fallimenti. Il ragazzo aveva perfettamente assimilato quelle opinioni, tanto da considerarle scontate, come se il padre stesse sostenendo che i cani fossero animali dotati di coda e totalmente privi di parola. Nulla di più banale poteva essere espresso così efficacemente.

Nel frattempo Cecilia appoggiava la madre, così s’intromise per rafforzare le tesi della donna, che intanto serviva la cena con l’atteggiamento di una presentatrice di talk show.
“Papà, non puoi pensare di riprodurre fatti tra loro contrapposti. Le persone possono fare scelte diverse, preferire vivere in povertà e dedicarsi completamente al proprio spirito, oppure alla comunità in cui vivono... Insomma, le possibilità sono tutte valide e non sono assolute!”
Pronunciata questa frase, Riccardo fu quasi sopraffatto da un conato di vomito. Sentire proprio Cecilia parlare in quel modo lo scombussolava dalle viscere. Da parte sua il padre la guardò, come se stesse osservando una regista di soap opera totalmente cieca.
“Ah, dunque, secondo te, la loro è una scelta... Oppure sono costretti a vivere in quel modo?”
Detto questo l’uomo mise una mano nella tasca della giacca, dunque fece scivolare un cellulare di ultima generazione proprio nel bel mezzo del tavolo.
“Figlia mia, osservalo bene”, disse, “perché tutti desiderano un cellulare come questo. Non farmi credere che qualche disgraziato preferisca non averlo, perché non ti crederò mai. La vita è competizione, ed il successo è misurato dai beni che ciascuno possiede. La gente asserragliata nei conventi, nelle comunità, oppure che si accontentano, in realtà hanno deciso di ritirarsi dalla competizione, perché coscienti della loro inevitabile sconfitta...”
Il padre di Riccardo non aveva mai avuto dubbi: per lui l’esistenza è competizione tra individui, traguardo l’esclusiva appropriazione di beni materiali. La sua visione avrebbe fatto gioire anche il più pessimista degli operatori di marketing. Riccardo era cresciuto tra questa sorta d’ideali, senza mai metterli in discussione. In effetti, uno dei suoi problemi era trovare un lavoro che lo realizzasse non dal punto di vista mentale, ma che fosse in grado di permettergli un alto budget di spesa. Per carità, anche lui possedeva un cellulare di ultima generazione, ma per non deludere il padre doveva padroneggiare nuovi e più costosi status symbol.

“Si, in effetti”, disse Riccardo come un automa, “possedere delle belle cose non può che piacere a tutti, del resto, da quando ho acquistato il nuovo televisore, la mia vita è migliorata...”
“Certo!” Esclamò il padre, battendo il pugno sul tavolo, “il possesso non è fine a se stesso, il rapporto con l’oggetto è soltanto un feticcio. E’ il sapere che possiamo permettercelo, il reale motivo della nostra soddisfazione!”

La discussione fu infine abbandonata, e dopo cena la famiglia si ritirò nel soggiorno, dove sul mega televisore andava in onda un oscuro film su una ninfomane scozzese violentata dallo zio paterno. Riccardo era gradevolmente intontito dal mix di farmaci, e con estrema fatica riuscì a tenersi sveglio. Il suo sforzo durò per una ventina di minuti, quindi si addormentò come se avesse lavorato per due giorni di fila, cogliendo pomodori e strappando erbacce nelle campagne napoletane.

Riccardo si stava lasciando prendere la mano, aveva mischiato tanti farmaci da stendere un elefante. Se un medico l’avesse visitato in quel momento, gli avrebbe concesso poche ore di vita. Quando si sedette a tavola faticava a tenere gli occhi aperti, era come se un pescatore pazzo gli avesse sistemato due piombini sulle palpebre. Tutt’intorno era come calata una coltre di nebbia, ciò nonostante riusciva a mantenere un contegno e questo era sufficiente. Quando arrivò il padre si alzò per stringergli la mano, gesto formalizzato da tempo, come un marito metodico che regala i fiori nel giorno di S. Valentino. Nei confronti del genitore provava una bizzarra sensazione, normalmente ne subiva il forte carattere, ma quella sera era come se si trovasse dinanzi ad un clown che avesse esaurito battute, barzellette e scherzi.

In seguito arrivò la sorella Cecilia, che indossava abiti dai molteplici colori e naturalmente delle più costose marche. A Riccardo parve una valletta un po’ mignotta, e gli scappò da ridere. La ragazza reagì con risentimento, come se avesse appena ricevuto una frustata sulla schiena.
“Ti faccio molto ridere, ma tu ti sei visto?”
“Ma figurati, Cecilia, non ridevo di te. Ho ricordato un episodio di questi giorni.”
“Raccontacelo, dai”, disse la sorella con un pizzico d’ironia.
“Magari più tardi. Adesso sono un po’ stanco, non ho voglia di parlare, scusami...”
Cecilia abbozzò un sorriso complice, e nonostante fosse in totale balia dei farmaci, Riccardo dimostrò a se stesso che poteva gestire le situazioni. Tuttavia doveva mantenere il controllo, con suo padre avrebbe potuto imboccare una strada senza ritorno. Si sentiva come una sorta di equilibrista gitano, in bilico su un filo sospeso a quaranta metri di altezza e senza protezione.
“Allora Ricky, come vanno le cose?”, chiese il padre, dopo avergli domandato qualche informazione sul fratello Carlo, in eterna lotta con gli esami universitari.
“Abbastanza bene, al call center è un tira e molla generale...”
“Tua madre mi ha detto dei problemi con quella tua ragazza.”
“Ex... Ormai non sono problemi, è una situazione di fatto.”
“Non pensarci, le donne vanno e vengono, come le nuvole. Vedrai, tra qualche settimana l’avrai già dimenticata... Piuttosto veniamo alle cose serie, parlami del televisore appena acquistato, Carlo mi ha detto che si tratta di un quarantadue pollici a schermo piatto...”
“Si, è un LED ultima generazione della SAMAS, spesso come una sottiletta.”

“Ottima scelta, davvero ottima scelta, tale padre, tale figlio. Certo, forse avrei acquistato qualcosa di più grande, ma per la tua stanza può andare. Sei entrato in soggiorno? Hai visto il nuovo televisore? No? Copre quasi tutta la parete, forse per apprezzarlo sarebbe meglio guardarlo dal balcone, ma certe immagini, ed i suoni... L’altra sera abbiamo visto “Salvate il soldato Ryan”, mi sono immedesimato talmente tanto che se avessi avuto una bomba a mano l’avrei lanciata nella casa del vicino. In pochi possono permetterselo, stiamo diventando una famiglia sempre più rispettabile...”
In seguito a questo commento intervenne la signora, con lo stesso tono di una casalinga brasiliana, che battibeccava aspramente con un gruppo di narcotrafficanti adolescenti.
“Dai, caro, sempre con questa storia, non puoi considerare la rispettabilità di una famiglia in base al televisore del salotto, oppure analizzando i loro possibili acquisti...”

“Come no?” Rispose contrariato il capofamiglia, ponendo una mano in avanti come a voler simulare un saluto nazista. “Pensa al popolino delle periferie, non hanno nessuna possibilità di decidere, scimmie chiuse in gabbie senza serratura. Solo famiglie come la nostra sono realmente libere, noi abbiamo la dignità dell’opzione, possiamo decidere cosa comprare e scegliere tra diverse opportunità. Quella gente spaventata, invece, arretra in un angolo, mentre noi pratichiamo e progrediamo! Siano benedetti i centri commerciali, dove possiamo trovare quella libertà negata dalle litanie religiose, e della sinistra più conservatrice...”
“Tutti sappiamo che dignità e povertà non sono due opposti, ma possono convivere insieme!” Ribatté seccata la donna, che ostentava la mascella destra come se stesse invitando il marito ad assestarle un potente gancio destro.

“Certo, per essere persone dotate di moralità non occorre essere benestanti. Ma qui stiamo parlando di libertà, non solo di dignità. Senza i nostri soldi dovremo continuamente accontentarci, sbavare davanti alle pubblicità delle vacanze, dei televisori o magari delle auto. Quando riuscirò ad aumentare ulteriormente il nostro patrimonio allora ci sarà da ridere, potremo permetterci la maggior parte dei prodotti esistenti in commercio e nessuno, dico nessuno, potrà strapparci le nostre conquiste! Insomma, considera Cecilia, è la più invidiata della classe, le sue amiche darebbero un braccio per vestirsi come lei, ed avere alcuni dei suoi dispositivi. Scommetto che quando ha portato il suo nuovo cellulare a scuola, per poco non le hanno fatto un’ovazione. Questa è vera libertà, questa è soddisfazione, stiamo discutendo di autentica evoluzione...”
Nel frattempo Riccardo, pur frastornato dall’abuso dei farmaci, ascoltava e prendeva atto della concretezza del discorso. Sin da quando era bambino, aveva ascoltato il padre esporre quei concetti, e non comprendeva perché la madre gli si opponesse. Raggiungere un alto standard di vita è un traguardo, un valido obiettivo da raggiungere, questo è il riassunto di ogni rapporto sociale. Chi non ci riesce è uno sconfitto, un reietto, un individuo scaraventato e perso in uno sconfinato oceano di fallimenti. Il ragazzo aveva perfettamente assimilato quelle opinioni, tanto da considerarle scontate, come se il padre stesse sostenendo che i cani fossero animali dotati di coda e totalmente privi di parola. Nulla di più banale poteva essere espresso così efficacemente.

Nel frattempo Cecilia appoggiava la madre, così s’intromise per rafforzare le tesi della donna, che intanto serviva la cena con l’atteggiamento di una presentatrice di talk show.
“Papà, non puoi pensare di riprodurre fatti tra loro contrapposti. Le persone possono fare scelte diverse, preferire vivere in povertà e dedicarsi completamente al proprio spirito, oppure alla comunità in cui vivono... Insomma, le possibilità sono tutte valide e non sono assolute!”
Pronunciata questa frase, Riccardo fu quasi sopraffatto da un conato di vomito. Sentire proprio Cecilia parlare in quel modo lo scombussolava dalle viscere. Da parte sua il padre la guardò, come se stesse osservando una regista di soap opera totalmente cieca.
“Ah, dunque, secondo te, la loro è una scelta... Oppure sono costretti a vivere in quel modo?”
Detto questo l’uomo mise una mano nella tasca della giacca, dunque fece scivolare un cellulare di ultima generazione proprio nel bel mezzo del tavolo.
“Figlia mia, osservalo bene”, disse, “perché tutti desiderano un cellulare come questo. Non farmi credere che qualche disgraziato preferisca non averlo, perché non ti crederò mai. La vita è competizione, ed il successo è misurato dai beni che ciascuno possiede. La gente asserragliata nei conventi, nelle comunità, oppure che si accontentano, in realtà hanno deciso di ritirarsi dalla competizione, perché coscienti della loro inevitabile sconfitta...”

Il padre di Riccardo non aveva mai avuto dubbi: per lui l’esistenza è competizione tra individui, traguardo l’esclusiva appropriazione di beni materiali. La sua visione avrebbe fatto gioire anche il più pessimista degli operatori di marketing. Riccardo era cresciuto tra questa sorta d’ideali, senza mai metterli in discussione. In effetti, uno dei suoi problemi era trovare un lavoro che lo realizzasse non dal punto di vista mentale, ma che fosse in grado di permettergli un alto budget di spesa. Per carità, anche lui possedeva un cellulare di ultima generazione, ma per non deludere il padre doveva padroneggiare nuovi e più costosi status symbol.
“Si, in effetti”, disse Riccardo come un automa, “possedere delle belle cose non può che piacere a tutti, del resto, da quando ho acquistato il nuovo televisore, la mia vita è migliorata...”
“Certo!” Esclamò il padre, battendo il pugno sul tavolo, “il possesso non è fine a se stesso, il rapporto con l’oggetto è soltanto un feticcio. E’ il sapere che possiamo permettercelo, il reale motivo della nostra soddisfazione!”

La discussione fu infine abbandonata, e dopo cena la famiglia si ritirò nel soggiorno, dove sul mega televisore andava in onda un oscuro film su una ninfomane scozzese violentata dallo zio paterno. Riccardo era gradevolmente intontito dal mix di farmaci, e con estrema fatica riuscì a tenersi sveglio. Il suo sforzo durò per una ventina di minuti, quindi si addormentò come se avesse lavorato per due giorni di fila, cogliendo pomodori e strappando erbacce nelle campagne napoletane.

Vincenzo M. D'Ascanio, brano tratto dal romanzo "Eclissi"

Il condominio di Drago.




Il tragitto per arrivare alla “casa” fu un viaggio devastante, infatti, dovettero utilizzare tutte le loro energie per avere ragione dei mobili. Ogni tanto il povero Drago era schiacciato da un tavolo, violentato da una poltrona, umiliato da una libreria, schiaffeggiato da una branda. Alex guidava come uno psicopatico dopo aver svaligiato una banca, non era di certo preoccupato delle condizioni dei passeggeri, simili a quelle di due giovani mozzi che, dotati di buona volontà, fronteggiano una devastante tempesta tropicale. Di tanto in tanto Drago allungava la mano, così Riccardo lo riafferrava tra quell’ammasso di legna e cartone, che l’avrebbe potuto trasformare in misera poltiglia palpitante. Drago cercava di ringraziarlo, o almeno così sembrava, poiché il suo linguaggio era troncato dalla paura per un nuovo scossone. Riccardo, intanto, dava calci e pugni sulla lamiera, urlava, sbraitava e digrignava i denti. Accio lo guardò dallo specchietto retrovisore con i suoi occhi di ghiaccio, sporse leggermente il braccio destro ed allungò il dito medio. Nel frattempo Alex calcò con veemenza il pedale del freno, e quasi “inchiodando” giunsero finalmente alla meta.

Quando scese dal mezzo Riccardo quasi non perse l’equilibrio, e si dovette appoggiare ad Alex nel medesimo istante in cui lo malediva. Drago, invece, cadde dal furgone schiantandosi sull’asfalto, e dovettero sollevarlo di peso quasi esanime. Quando si rialzò li osservò con occhi folli, così Accio gli offrì una sigaretta. Lui rispose orgogliosamente che “aveva le sue”, le terribili “Quattro Nazioni” senza filtro. Le sigarette di Drago producevano un odore nauseabondo che sembrava provenire dalle raffinerie del golfo, pertanto Riccardo si spostò, e solo allora si accorse del quartiere in cui si trovavano... Non intendo essere drammatico, ma quel pomeriggio sembravano sbarcati in altre regioni della terra, forse dell’America Latina o dell’Africa. Il quartiere era il risultato della scelleratezza delle amministrazioni locali, che avevano asserragliato parte della popolazione (ovviamente, quella più povera) in un vero e proprio ghetto. Erano presenti malconci palazzi popolari, ed in tutto il perimetro del quartiere non era presente una farmacia, un supermercato, un asilo, e non c’era nemmeno la fermata dell’autobus.

Quando Riccardo si voltò, vide una grande piazza rettangolare in cemento armato, dove alcuni giovinastri si divertivano con un pneumatico appeso ad un’altalena, per addestrare un grosso pit bul. L’animale saltava e mordeva con forza il pneumatico mentre i ragazzotti, con indosso giubbotti e jeans strettissimi, lo colpivano con possenti bastonate, commentando entusiasti i salti del povero animale, reso ormai pazzo da nervoso e fatica. La piazza era disseminata da rottami, cocci di bottiglia, sassi, schegge di vetro, e su tutto spiccavano alcuni ciclomotori totalmente carbonizzati, moderni totem consacrati al dio del degrado. Sopra le loro teste, all’interno di un balcone pericolosamente scrostato, una ragazza trasandata appendeva i panni: era magrissima, pallida come un vampiro in crisi di astinenza.
“Ricky, muoviti”, disse Accio, “prima ci muoviamo e prima andiamo via, dannazione!”

Riccardo si avvicinò al furgone, attendendo il primo mobile dalle braccia di Alex. Si trattava di un vecchio comodino ricoperto di polvere, che riuscì a trasportare su per le scale con uno sforzo immane... Mentre posava il piede sul primo scalino del secondo piano, una bambina si presentò dinanzi a lui. Riccardo si fermò per riprendersi dalla fatica, e questa lo osservò con occhi drasticamente malinconici. In una mano stringeva una piccola busta contenente chissà quali cianfrusaglie, mentre nell’altra aveva un piccolo pupazzetto sporco, simile a quelli che un tempo si trovavano all’interno dei detersivi. Il ragazzo la lasciò passare, e se non avesse avuto quell’ammasso di compensato tra le mani, le avrebbe di certo accarezzato i capelli. Forse le avrebbe posto qualche domanda, magari avrebbe cercato un espediente per farla sorridere. Tuttavia si limitò a strascicare un “ciao” e lei rispose con un sorriso, pronta ad acciuffare insetti tra quelle aiuole ricche di rottami, poltiglia e lordume, con i suoi occhi verdolini e con le sue manine da fata scandinava.

Un piano, due piani, tre piani ed ecco finalmente Drago dinanzi alla porta, un portone enorme, blindato, spropositato e possente. Dopo qualche secondo Drago gli indicò tre profonde infossature non lontane dalla serratura, causate evidentemente da un’arma da fuoco. Riccardo allora lo guardò con autentica angoscia, ma lui ricambiò i suoi occhi preoccupati con spensieratezza. Certo, aveva perso qualche dente, ma quel sorriso era come un tramonto sul mare, e Riccardo non poté fare a meno di provare un senso di pace e tranquillità, come se quelle ammaccature fossero un elemento comunemente accettato dalla società civile. Sì, in effetti, Drago aveva finalmente trovato la sua sistemazione, e non poteva rovinargli quel momento con le sue inquietudini.

Dopo aver trasportato il resto della mobilia Drago preparò un ottimo caffè, dunque ci fu il consueto rito della cannabis. In stato di totale sballo Alex e Accio ripartirono per le rispettive destinazioni, mentre Riccardo ritornò sino al vicino appartamento.

Vincenzo M. D'Ascanio, brano tratto dal romanzo "Eclissi" 

Discorso sul consumismo.




I tre andarono verso la mensa, e Silvestro fu presentato agli altri. Uno speciale affiatamento si creò subito tra lui e Floriana, con un fitto scambio di battute ed accelerati movimenti delle spalle. Entrambi sembravano improvvisare un corteggiamento simile a quello tra leoni e leonesse, ovviamente con relativa mancanza di criniera, baffi e dentatura da incubo... Dopo cena il gruppo si trasferì nella piazza centrale, dove alcuni ragazzi allestivano un enorme falò. Come nelle notti precedenti, legna su legna era raccolta e gettata nel grande calderone, in cui le ceneri erano ormai formate e scintillavano nella semioscurità del crepuscolo come stelle risalenti il cielo. Tutt’intorno erano già state sistemate numerose sedie, così Riccardo, Francesca e gli altri si accomodarono, in attesa del discorso finale. Riccardo assunse furtivamente la dose di farmaci cercando di non farsi notare, ma Francesca lo vide e gli sorrise con accondiscendenza.

Nel frattempo le sedie furono occupate, ed alcuni campeggiatori si arrampicarono sulle vicine querce. Cominciarono così le presentazioni dei lavori, come avveniva al termine di ogni giornata. Con grande orgoglio di Accio e Tony fu presentato il motore da loro assemblato, ed il lavoro fu accolto con entusiasmo soprattutto dal vecchio Tobias, che cominciò a girare su se stesso come se intendesse perforare il terreno. Fu mostrata anche una mensola creata da Riccardo con materiale riciclato, ed un graffito di Francesca, in cui un bellissimo arcobaleno demoliva un condominio di lusso. I lavori furono accolti con autentico gradimento, ognuno si sentiva parte di un qualcosa di speciale ed importante. Un ragazzo, che per tutta la giornata aveva tenuto un pomodoro in mano, lanciò un grido di giubilo.

Dopo pochi minuti comparve un ragazzo dai capelli rasta, sistemò il microfono e con ampie sbracciate impose il silenzio. Nella notte, il suo volto illuminato dai bagliori delle fiamme lo facevano sembrare uno sciamano indiano, ma quando cominciò a parlare, l’attenzione di Riccardo e dei presenti fu letteralmente catturata. Non ne aveva senz’altro l’aspetto, ma il ragazzo aveva sorprendenti doti di oratore.
“Un saluto fraterno a tutti voi!” Disse dopo essersi schiarito la voce, “purtroppo questa è la nostra ultima notte, e siamo arrivati al momento dei saluti. Durante le giornate ci siamo immersi totalmente nel lavoro, il tempo è così trascorso in fretta, forse anche troppo... Durante il campeggio spero che ciascuno si sia divertito, ma l’obiettivo non era questo. Ciò che abbiamo fatto non riguarda attività ricreative, oppure di semplice svago. Abbiamo adottato uno stile di vita differente, alternativo, una concezione esistenziale diversa da quella imposta dalla società dei consumi. Noi crediamo che l’uomo possa vivere in maniera più soddisfacente rifiutando il materialismo e lo spreco, evitando di farsi stregare dalla televisione e dagli altri mass media, strumenti adeguati ad intrappolarci la mente ed indurci a comportamenti ripetitivi, indotti e controproducenti, come il meccanico acquisto di prodotti...”

Il ragazzo restò in silenzio per qualche secondo, in attesa che gli ultimi arrivati occupassero le proprie sedie. Sembrava quasi un agricoltore dell’Agro Pontino, intento a valutare i danni di un’improvvisa e devastante inondazione. Una volta sedato il brusio, ricominciò a parlare.
“Noi possiamo domandarci, sino allo sfinimento, cos’è il consumismo? Più ci poniamo questa domanda, più comprendiamo che si tratta di qualcosa di sfuggente, dalle molteplici sfumature, alcune delle quali non sono alla nostra portata. Possiamo anche azzardare che il consumismo sia una subcultura, secondo cui l’uomo trae soddisfazione dall’acquisto di beni materiali, appunto beni di consumo. Nella logica del consumismo troviamo una complessa serie di giudizi sociali, secondo cui l’individuo è riconosciuto in ragione dei beni che possiede, creandosi così scale gerarchiche dove il primo requisito resta il possesso e la proprietà. In questa stessa scala gerarchica l’individuo deve per forza arrampicarsi, se vuole evitare di trovarsi ai margini della società. In consumismo fa perno su un individualismo che spezza qualsiasi legame familiare e collettivo, il successo personale è il parametro per sintetizzare ciascuno di noi. Ecco, dunque, una prima implicazione: il consumismo rifiuta qualsiasi forma di solidarietà, non rapporti personali clementi, ma competizione dura e serrata, senza esclusione di colpi.”

“Bravo Gianni, sei la nostra coscienza”, urlò un ragazzo appollaiato sulla quercia più vicina. Gianni (questo era il nome dell’oratore) fece alcuni gesti con le dita, come se stesse indicando il numero d’ispettori che avrebbero potuto interrogarlo, dunque si schiarì la voce e ricominciò a parlare, ondeggiando a destra ed a sinistra come un alberello in balia del vento.
“Le tecniche di marketing delle multinazionali ci orientano verso una direzione ben definita. Intendono stabilire un legame indissolubile tra possesso, psiche e status sociale. Nelle pubblicità mostrano il modello del cittadino ideale: bello, proprietario di auto potenti e perennemente lucide, famiglia composta da persone essenzialmente perfette. Abitazioni con cucine spaziose e tirate a lucido, sorrisi smaglianti sin dal mattino, capifamiglia motivati e sistematicamente incravattati, mogli pazienti, decise a servire la colazione come se fosse l’unico scopo della propria esistenza. La propaganda nazista non avrebbe trovato immagini migliori, perché il culto della razza ariana è sintetizzato con una fedeltà degna del più scrupoloso Joseph Goebbels... E’ sottinteso che gli altri sono da emarginare, al massimo oggetto di un’ambigua carità cristiana: gli individui non competitivi e non allineati alla società totale, la perfetta società dei consumi. Una società profondamente astratta, inesistente, del tutto slegata dalla realtà, rappresentante un mondo in cui nessuno può vivere ed in cui nessuno mai vivrà. Eppure siamo ammaliati dallo scintillio delle pubblicità, e consideriamo come le nostre esistenza perdano il confronto con quei modelli. Nasce allora la frustrazione, s’insinua tiranna la depressione, col conseguente rialzo delle vendite di case farmaceutiche e similari, che realizzano profitti dalla generale mortificazione delle masse...”

Per alcuni secondi l’oratore alzò le braccia al cielo, come se stesse domandando alla luna di concedergli le migliori parole per concludere il discorso. Intanto, un ragazzo seduto accanto a lui, si alzò dal suo posto, fece una capriola all’indietro e lanciò un urlo tremendo, quasi disumano.
“Per anni ci hanno fatto credere che siamo ciò che abbiamo, poiché non esiste alcuna differenza tra essere ed avere. Al diavolo l’illuminismo, tutto il romanticismo, Neruda, Pasolini e Sartre. Ogni individuo è rappresentato dal vestito e dalle scarpe che indossa, il suo conto in banca, l’auto parcheggiata in garage, il frigo, il cellulare di ultima generazione. Dinanzi a noi si stendono i nefasti effetti di questa concezione esistenziale, capace di renderci estranei alla nostra natura sociale. L’individuo è stato rimosso dalle sue più elementari esigenze, ossia l’indispensabile ricerca della socializzazione, per vivere in un solitario e freddo materialismo, attendendo con trepidazione il preciso momento in cui ciascuno avrà tatuato sul braccio il proprio codice a barre, come in un totale, eterno e micidiale campo di concentramento!”


Detto questo il ragazzo cominciò a turbinare su se stesso, come se intendesse metaforizzare una sonda capace di trivellare tanto il terreno quanto la coscienza dei presenti. Riccardo rimase stupito da questo singolare comportamento, tuttavia dopo qualche istante lo ignorò, e cominciò a riflettere sulle parole appena ascoltate. Nella sua vita era sempre stato prepotentemente materialista, e questo comportamento aveva determinato lampi di effimera soddisfazione, ma mai un’autentica felicità. In effetti, la continua smania di prodotti ll’aveva portato ad una profonda frustrazione, la stessa provata da un killer psicopatico rimasto senza cartucce nel momento decisivo... Quanto aveva influito questo modo distorto di considerare la vita? Quanta infelicità aveva accumulato, grazie a questo sterile materialismo? Certo, qualcuno poteva trovare il suo completamento, come accadeva al padre, ma ormai Riccardo stava smascherando l’origine del suo male o, almeno, una delle sue origini.

Vincenzo M. D'Ascanio, brano tratto dal romanzo "Eclissi" 

Verso nuove destinazioni.




Quando salirono sul furgone, Accio afferrò con rabbia immotivata una sacca che tintinnava. Dopo averla sistemata tra le gambe, cominciò a muovere le mani verso il cielo, come se intendesse interrogare gli astri a proposito della bontà della sua azione.
“Qui c’è tutto l’alcool che volete” disse sprezzante, “ed ora rollo anche qualche canna. Vedrete, arriveremo a quella festa in condizioni pietose.” Tony/Barcellona aprì con prontezza il borsone: in effetti, all’interno c’erano numerose birre, limoncello, vodka, acqua vite, mirto ed addirittura una bottiglia di alcol puro. C’erano anche dei succhi di frutta, subito affidati a Floriana con gesti rapidi e precisi. Sembravano un gruppo di mercenari, che si passavano le armi prima dell’assalto decisivo. Riccardo aveva appena assunto i farmaci del “dopo cena”, e decise saggiamente di non bere. Si sentiva come un mercante ebreo del settecento, cui avessero proibito il commercio ed i traffici con un’ordinanza del doge. Anche Francesca decise di non bere, perché quella sera aveva un leggero dolore allo stomaco. Gli altri, invece, cominciarono a tracannare come forsennati, come un gruppo di ammutinati che avevano appena scalzato il loro temibile comandante. 

Nel frattempo Silvestro li seguiva a distanza, col viso quasi attaccato al parabrezza come se gli mancassero cinque o sei diottrie. Guidava una vecchia Alfa Sud procurata chissà come, ed aveva applicato due lunghe antenne sul paraurti anteriore, da cui spiccavano una bandiera britannica ed una dei reparti sudisti, risalente alla guerra civile americana. Forse le stesse antenne gli servivano per ricevere delle frequenze ad altri inaccessibili, ma queste davano all’auto le sembianze di un enorme insetto. Nel frattempo Drago stava perdendo ogni controllo: inaspettatamente si sedette sul bordo del finestrino, e cominciò ad urlare parole insensate e talvolta oscene, come se nel suo corpo fosse subentrato uno spirito malefico, capace di parlare latino, greco, aramaico e volgare fiorentino. Riccardo rimase sopraffatto da quella condotta, anche perché Drago manteneva sempre un buon selfcontrol, anche nei momenti di assoluto caos mentale. Invece Tony, Francesca e Floriana non smettevano di ridere: sarebbe bastata una brusca frenata per scaraventare Drago sull’asfalto. Infatti, dopo qualche minuto, giunse un ordine perentorio da parte di Accio.
“Barcellona, tienilo con tutta la forza che hai, sto per eseguire una brusca virata...”

Ormai Accio parlava come l’agguerrito commodoro di un vascello inglese, gli mancava solo il copricapo, la sciabola e gli schizzi delle onde sul viso. Il muscoloso braccio di Tony giunse sino alla cintura di Drago, che fu trattenuto vigorosamente per i pantaloni. Accio svoltò di scatto a destra, senza per altro ridurre la velocità. In sostanza Drago stava volando: aveva le braccia tese in avanti, come un eroe anni cinquanta, disposto a planare sulla città per scovare possibili malfattori. Se non ci fosse stato Tony a trattenerlo, sarebbe stato catapultato nel mezzo della spinosa macchia mediterranea. Accio aveva “virato” verso una strada in terra battuta, sempre per evitare possibili posti di blocco. Mentre la percorrevano erano sballottati da una parte all’altra del veicolo, mentre ad intervalli regolari Riccardo sbatteva violentemente la testa nel tettuccio della vettura. Il sentiero passava attraverso uno splendido bosco: le querce si ergevano improvvise alla luce dei fari, e talvolta si potevano notare delle rapide lepri, che cercavano riparo nella fitta vegetazione. La luna piena, alta nel cielo, pareva un enorme faro destinato all’illuminazione di un piazzale carcerario. Le pietre bianche si levavano dalla foresta come sepolcri, adatti ad ospitare vittime di leggendarie guerre tribali. I contorni degli alberi destavano un certo timore, come scheletrici mostri pronti ad arrampicarsi ostinatamente verso il cielo stellato. Mentre osservava quel paesaggio, Riccardo si sentì come un bambino, ricordando quando trascorreva le estati in campeggio, e talvolta doveva confrontarsi con i silenzi e le mute figure del bosco.

“Datemi due cartine, altrimenti come faccio?” Questa frase, pronunciata da Tony/Barcellona col suo marcato accento cagliaritano, distolse Riccardo da qualsiasi pensiero. Il muscoloso ballerino della notte aveva la mano sinistra aperta, come se stesse attendendo il posarsi di un’ostia consacrata. Dopo qualche secondo Floriana gli diede quanto richiesto, e Tony le unì per formare un’ imponente cicca artigianale, di cui tutti si domandavano l’oscuro contenuto.
“Questa roba non l’avete mai vista”, commentò soddisfatto Accio, “niente a che fare con le vostre insulse porcherie. E’ stata prodotta nel mio laboratorio personale, può essere inalato, fumato e persino ingerito. E’ composta al cento per cento da elementi naturali, niente sostanze chimiche, potete stare tranquilli. L’effetto è destinato al rilassamento ed all’aumento esponenziale delle percezioni. Vedrete, vi lascerà a bocca aperta, probabilmente ho sfiorato il mio apice.”
Riccardo non nutriva grande fiducia in Accio, troppi atteggiamenti gli erano sembrati bizzarri o semplicemente pazzeschi. Tuttavia quando vide Francesca fumare, anche lui decise di tranquillizzarsi e provare. Francesca non era una stupida: Riccardo si fidava di lei come una donna gravida si fida del proprio ginecologo. Accolse tra le mani quell’intruglio come se stesse afferrando un cacciavite, dunque lo sperimentò con tutta la solennità del caso. Inizialmente non ci fu alcun effetto ma, trascorsi pochi minuti, la testa cominciò a danzargli al ritmo di tamburi giamaicani. Ora visualizzava solo il furgone attraversare il bosco e di tanto in tanto, ai lati, comparivano strane figure silenziose ed artefatte. Non disse nulla per non essere ridicolizzato, anche se tutti sembravano preda di personali allucinazioni. All’interno del furgone persisteva una dura cappa di silenzio, ciascuno era irrimediabilmente perso nelle rispettive illusioni. Per due volte Accio frenò sterzando bruscamente, come se cercasse di evitare, od investire, un pedone. Da parte sua Floriana sporse la testa dal finestrino, e cominciò a salutare un immaginario saggio della foresta, seduto dinanzi ad un ruscello, intento a pescare ed elaborare parabole molto sagge.

“Ei, nonno, vieni anche tu alla festa? Sì? Bene, allora ci vediamo, fatti accompagnare dalla nonna, ha perso tutta la memoria!” Floriana aveva sognato suo nonno, morto diversi anni prima, ed aveva scordato dove si trovava. Riccardo la osservò per alcuni secondi, e la vide vestita come una tipica donna anziana dell’interno, ossia gonna lunga, camicia e fazzoletto nero legato al capo. Nel frattempo Tony aveva assunto il ruolo del suo alter ego, Barcellona, così cominciò a muoversi a ritmo di musica, immaginando di trovarsi sul cubo di una famosa discoteca del litorale adriatico. Era probabilmente convinto d’indossare piume ed abiti attillati, magari vaneggiava su un folto pubblico che lo acclamava, mentre imitava tanto i suoi passi quanto le sue giravolte. Nell’oscurità del furgone s’intravedevano le sue braccia muscolose, che si muovevano come serpenti ipnotizzati da una schiera di flauti. Di tanto in tanto Accio si voltava a guardarlo, ma sulle sue labbra sfregiate non c’era l’accenno di un sorriso: per lui le movenze di Tony erano terribilmente serie, e forse avevano un loro oscuro significato, come un misterioso codice babilonese da decifrare. Drago, intanto, giaceva semisvenuto con parte del corpo ancora all’esterno del finestrino: se fosse incappato su un ramo sporgente, questo gli avrebbe sfregiato buona parte del viso. Francesca, invece, era immobile e fissava il vuoto, ostaggio di chissà quali visioni. Forse intravedeva immagini della sua infanzia, quando attendeva che la madre concludesse il suo turno di lavoro. Riccardo, invece, teneva la mano sinistra sul suo occhio destro, e continuava a vedere Elisa in tutti gli angoli del bosco: sul sentiero, accovacciata sulle rocce, sui rami degli alberi, addirittura fluttuante a mezz’aria. Ad intervalli compariva suo padre che armeggiava con bizzarri apparecchi elettronici, ghignando come un alienato mentale privato delle sue medicine.

“America, ecco l’America!” Urlò Drago, come un immigrato italiano calabrese nei primi del novecento. Dopo qualche secondo anche gli altri videro le luci del paese, inaugurando una conversazione che avrebbe interessato qualsiasi studioso della psiche umana. Il paese era situato su una collina, e le periferie sembravano sospese nell’aria, pronte a spiccare il volo verso sconosciute costellazioni. Accio cominciò a fregarsi le mani come il perfido delle fiabe, mentre gli altri persistevano nel loro chiacchiericcio, che intanto diventava sempre più fitto ed incomprensibile. Nel frattempo Drago ritornò all’interno del furgone, che percorreva a folle velocità il letto asciutto di un torrente. Quando cominciò una salita in cemento, tutti pensarono di trovarsi su un pericoloso sentiero di montagna. Accanto alla strada, tanto a destra quanto a sinistra, spiccavano vigne, frutteti e campi coltivati. Non mancavano gli uliveti, che illuminati dalla luna parevano una fedele rappresentazione del Getsemani. Tutt’intorno dominava una serena solitudine, anche se le luci del paese, e le stesse case, s’intravedevano con sempre maggior chiarezza. Inaspettatamente terminarono l’impervia salita, e dopo aver percorso pochi chilometri si ritrovarono nella periferia del paese. Ciò aveva un significato: Accio non aveva guidato in preda a chissà quali visioni, il sentiero appena percorso era senz'altro una scorciatoia.

Vincenzo M. D'Ascanio, brano tratto dal romanzo "Eclissi"

La festa del paese.




“Venite in fretta, qui danno il vino a secchiate!” disse intanto con strani gesti Silvestro.
“Il vino, oh, quello disintegra, fidatevi di me, lo conosco bene...” Rispose secco Accio.
Intanto la temperatura assumeva eccezionali cambiamenti: un vento caldo proveniva da continenti lontani, tanto che qualcuno passeggiava con maglietta a maniche corte ed infradito. Nelle viuzze si era formato un vespaio di persone, tutti tenevano un bicchiere oppure una bottiglia, qualche gruppetto intonava una canzone, altri urlavano frasi sconnesse ed illogiche, giocavano alla “murra”, s’abbracciavano, litigavano nelle cantine allestite per l’occasione. Qualcuno si amava focosamente negli angoli bui, e se sorpresi non mostravano nessun pudore, anzi, sembrava quasi che la situazione li eccitasse ulteriormente... La comitiva si sentiva a proprio agio, il vino aveva un sapore robusto ma non troppo forte, non era quel genere di vino che sembra strozzarti quando ne bevi un sorso. Nonostante ciò l’alcol fece il suo lavoro soprattutto su Riccardo, che mescolando alcolici e farmaci concepiva un imprudente attentato al suo fegato. Intanto Silvestro non smetteva di sbracciarsi, come se intendesse discutere di filosofia del diritto con ogni passante. Si muoveva ondeggiando sapientemente le anche, come una bagnarola persa tra le onde nei mari del Nord. La sua figura intrigava particolarmente Riccardo, che non poté fare a meno di rivolgergli qualche domanda.

“Senti, Silvestro”, gli disse, “ma ora cosa fai nella vita?”
“L’impiegato... E studio.” Rispose lui tutto pimpante.
“Sei un ricercatore?”
“No, mi piace definirmi un semplice studente...”
“Ah! In quale facoltà sei iscritto?”
“In nessuna, studio per conto mio. Storia Medievale.”
“Storia medievale, cavolo, affascinante! Ma per vivere?”
“Dai, ci sono milioni e milioni di varianti per il vivere moderno. Per altro sono ancora impiegato in quella dannata provincia, ma mi adatto a qualsiasi mansione. Del resto, se tutti studiassimo per vivere, cosa accadrebbe?” Per un attimo Silvestro rimase in silenzio, come se stesse pensando al modo migliore per annullare un’ipoteca gravante sulla propria abitazione.
“Conosci Kant?” Disse improvvisamente. “Era un vero e proprio imbecille, ma un uomo degno di quel nome può porsi soltanto un obiettivo: l’immensità. Bene o male lui l’ha raggiunta, si dica quel che si vuole. Poi, dimostrare che si tratta dell’ideologo del Partito Nazista, sono un altro paio di maniche...”
“Tu, quindi, aspiri all’immensità?”
“No, non ne ho il diritto. Non sono un genio. Aspiro a fare ciò che mi piace, e mi basta...”
“Dici nulla... Non so se avrò il coraggio necessario...”
“Trovalo, trovalo immediatamente! In ballo c’è la tua vita!” Detto questo Silvestro non aggiunse altro, e fece una linguaccia al suo sbigottito interlocutore.

Naturale, le parole di Silvestro potevano avere un senso, ma quella sera Riccardo non era nelle condizioni per sviluppare alcun pensiero compiuto. Tra un bicchiere e l’altro si ritrovarono a ballare in una graziosa piazza esagonale, uno di quei tipici balli di gruppo che dominano le feste nei paesi sardi. Numerose persone ballavano con loro, tutti sorridevano, tutti eravamo resi più socievoli dal vino e dalla musica. Riccardo e Francesca, lentamente, cominciarono a ballare da soli, come due cortigiani indifferenti alle pretese del sovrano. Lei si accostava sempre più sfrontatamente, così Riccardo percepì il suo corpo sinuoso, e la situazione non gli dispiaceva. Dopo alcuni movimenti del bacino il ragazzo le propose una passeggiata, e Francesca accettò con un sorriso lieve ma complice. Camminavano per le strade colme di avinazzati senza cognizione del tempo, si tenevano per mano, si guardavamo negli occhi, di tanto in tanto si accarezzavano le labbra. Lei indossava un vestito corto e colorato, degli zoccoli prestati da Floriana, ed una leggera collana composta da minute conchiglie di molteplici colori.
“Andiamo là!” Disse Francesca prendendo Riccardo per mano.
“Dove? No, ma tu lo sai...”
 “Non ti fidi di me?”
“Come no?” Balbettò il ragazzo, “mi fido, certo che mi fido...”
Francesca lo fece sedere sul pianerottolo di una vecchia abitazione, dunque restò in piedi dinanzi a lui accarezzandogli viso e capelli. Tutt’intorno erano presenti palazzi antichi o fatiscenti, sembrava quasi di trovarsi a Sarajevo dopo una tenace rappresaglia serba. Per qualche istante Riccardo non disse una parola, guardò Francesca e non poté fare a meno di baciarla, sentendo indistintamente il sapore del vino e del tabacco “Virginia”, la sua marca preferita. Continuarono a baciarsi per qualche minuto, come due modelli di una foto di Bresson. Riccardo, infine, ebbe la bella idea di sollevarle la gonna, ma Francesca non aveva le sue stesse idee.
“Ei, carino, guarda che siamo tra le case, leva quella manina!”
“Ah, si scusa, non mi ero accorto...”
“Certo, la mano della famiglia Addams!”
“Sì, sì, lo so, ma non è semplice come pensi tu...”
La ragazza rise e gli accarezzò nuovamente i capelli, come se stesse rassicurando un bambino sin troppo trascurato. Francesca era una ragazza comprensiva ed affettuosa, per lei era naturale dimostrarlo in qualsiasi occasione. Era una sua dote innata, ed in particolare con Riccardo era ancora più premurosa del necessario, forse perché conosceva le sue dolorose esperienze.
“Francè, poco fa ho parlato con Silvestro...”
“Sì? Che ti ha detto quello sciagurato?”
“Non so, ha fatto tutto un discorso... Mi ha detto che studia Storia Medievale, senza motivo, insomma, perché lo rende felice. Mi ha ripetuto quelle storie su Kant ma questa volta non ho capito molto... Cioè, detto in due parole, a suo parere ognuno deve fare ciò che gli piace!”
“Mi sembra giusto”, rispose lei mentre premendogli un dito sulle labbra, “in effetti, non è tanto scemo, questo Silvestro.”
“Ti sembra una posizione corretta? Ma non si rischia di buttare la propria vita?”
“Sì, certo, ma di errori ne commetterai comunque, indipendentemente dalla strada scelta. Del resto, in questa vita si può anche fallire, non vedo questa grande tragedia. Non farti abbindolare dai miti del nostro tempo, non è necessario essere dei vincenti, o diventare delle persone importanti, se così le vogliamo chiamare... Un individuo, qualsiasi individuo, deve fare ciò che desidera, se vuole dare valore alla sua esistenza. Puoi fare il muratore, lo scienziato, il giocatore di dadi, lo spazzino, il poeta o l’avvocato, insomma, tutto ciò che potresti immaginare. E’ fondamentale concentrarsi su qualcosa che ti permetta di essere in sintonia con te stesso, il resto sono tutte chiacchiere...”
“Sì, ma non posso vivere studiando le battaglie dei saraceni o la caccia alle streghe, cioè, stiamo parlando del vivere quotidiano...” Francesca, udita questa frase, rise portandosi la mano alla bocca, come solitamente faceva in queste situazioni.
“A volte ti comporti come un bambino... E’ naturale, una persona deve anche adattarsi, ma finché può, ha il dovere di tentarci in ogni modo! O, se non altro, ritagliarsi il tempo per farlo. Tanti scrittori, scienziati, filosofi o poeti hanno condotto una vita piena di ostacoli, svolto lavori che odiavano anche per decenni, prima di raggiungere il loro obiettivo. Per esempio, considera Kafka, ha fatto l’impiegato per tutta la vita, Bukowski, invece, prima di diventare uno scrittore affermato, era un alcolizzato che viveva di espedienti. Alcuni sono diventati famosi soltanto dopo la loro morte, tanti hanno vissuto nell’anonimato, eppure hanno insistito per raggiungere il loro sogno, sino all’ultimo respiro...”
Francesca strinse gli occhi, per poi declinare leggermente la testa sulla sua destra.
“Io non l’ho mica capito cosa ti piace fare... Hai sempre la testa tra le nuvole!”
“A me piaci tu...”
“Ah Ah! Sei uno sconvolto! Dai, andiamo, prima che arrivi il padrone di questa casa e ci prenda a calci. Te la fa vedere lui la battaglia con i saraceni...”
Quando tornarono nella strada principale, con sorpresa notarono una gran confusione. Non sarebbe stato semplice trovare gli altri, in mezzo a quell’allegro caos di anime festose. Francesca prese la mano di Riccardo e gliela strinse, dunque si voltò e lo abbracciò nella marea che passava.

“Anche tu mi piaci, mi piaci tantissimo, non dimenticarlo mai!” Sussurrò all’orecchio del ragazzo, stringendolo forte a sé. Riccardo si sentì come non si sentiva da molto tempo, era come se si fosse appena salvato da un mostro alato venuto dall’Inferno. Abbracciò Francesca e si lasciò inebriare dal suo profumo, infine la guardò nella profondità dei suoi grandi occhi verdi. Avrebbe voluto dirle qualcosa, ma le parole gli morivano in gola. Nel suo intimo era come se fosse detonata una mina, un’emozione in grado di sconvolgergli la mente... Chissà, forse si stava innamorando, probabilmente lo era già. Non avrebbe mai immaginato di poter riprovare quelle emozioni, dopo il disastroso rapporto con Elisa. Francesca, invece, lo aveva resuscitato, ed ora lui si sentiva come un Lazzaro dei nostri giorni, risorto e preparato ad affrontare qualsiasi Caifa. Chi mai avrebbe potuto prevederlo? A distanza di pochi mesi, e dopo aver attraversato un tunnel tenebroso, poteva ancora sperare, soprattutto vantava dei diritti d’autore sull’amore. Forse il dolore era un percorso di sola andata? Per un istante, per un frangente di secondo, gli venne l’irresistibile voglia di urlare, ma nonostante la confusione ed il chiasso decise di non farlo.

In seguito i due andarono incontro alla festa, con lo stato d’animo di chi si avvia ad un circo gestito da una combriccola di dementi. La folla era caotica, Riccardo non si sarebbe mai aspettato una simile bolgia in un paesino tra le montagne della Barbagia. Non aveva mai amato quel genere di serate, ed in passato aveva sempre cercato di evitarli. Invece, proprio quella sera, tra urla, abbracci ed imprecazioni, si sentiva del tutto a suo agio. Un ambulante gesticolava rapidamente con le dita, come se volesse acchiappare le stelle per poi rivenderle ad un prezzo speciale. Questo gesticolare convulso sorprese Riccardo, che decise di acquistare una quantità spropositata di caramelle. Quando infine giunsero alla piazza, ebbero difficoltà a farsi largo tra la folla, perché la calca era diventata addirittura insostenibile. Individuato un varco, videro Tony, Silvestro e Floriana che ballavano al ritmo incalzante della musica. Francesca andò nella loro direzione, con il suo vestito a motivi floreali che risaltava splendidamente nel caos di corpi. Naturalmente trascinò con sé Riccardo, che persisteva a tenere la mano nella busta delle caramelle, come se fosse parzialmente monco e non intendesse darlo a vedere.
“Frà, rallenta, io non so ballare!”
“Nemmeno io, tu muoviti e non pensarci!”
“Muovermi? Non pensarci? Per la miseria, sembrerò un invasato!”
Dopo aver dislocato a destra ed a manca la bustina delle caramelle Riccardo prese la mano di Floriana, che ballava in un modo che non aveva nulla a che vedere col ritmo della fisarmonica. Tony/Barcellona, invece, era essenzialmente perfetto, neanche un piccolo movimento era lasciato all’improvvisazione. Silvestro e Francesca muovevano rapidamente le gambe, non eseguivano i passi corretti ma nessuno poteva notarli. Allora anche Riccardo decise d’improvvisare, si sentiva un po’ come il contabile di un’agenzia finanziaria con i conti totalmente in disordine, ma decise di non ascoltare quelle sensazioni. Mosse le gambe cercando di sgombrare il cervello, ora era importante sentire la mano di Francesca, perdersi nel suo sorriso e sentire il proprio corpo muoversi accanto al suo.

Nel frattempo Accio attendava accanto ad una botte, ed un ragazzo dal viso butterato gli versava del vino rosso in un grande calice di vetro. Dopo ogni bicchiere il ragazzo muoveva rapidamente le spalle, come se con quei rapidi movimenti invitasse Accio ad un’ulteriore assaggio. Da parte sua, Accio mostrava le sue cicatrici con disinvoltura, e col cellulare mostrava delle foto. Più tardi Riccardo seppe che in quel cellulare erano contenuti filmati di risse ed incidenti stradali, ma soprattutto rapporti sessuali consumati dallo stesso Accio con alcune prostitute dell’hinterland cagliaritano. Le aveva filmate con una micro camera nascosta nel cruscotto, ed ora era ben fiero di rivelare le sue prestazioni sessuali a chiunque gli capitasse a tiro. La cicatrice sul labbro superiore era ostentata come un vessillo di guerra, e fendeva l’aria come una Cadillac lanciata verso l’ignoto.

La comitiva continuò a divertirsi per un po’, Riccardo e Francesca avevano le labbra imbrattate di caramelle, e di tanto in tanto si scambiavano un bacio. Silvestro incalzava spudoratamente Floriana, che comunque non disdegnava quel curioso figuro. In determinati frangenti Silvestro faceva mulinare all’indietro le braccia, forse allestendo una danza amorosa per la sua bella. Ad ogni modo verso l’una furono costretti ad andare, anche perché alle due i cancelli del campeggio sarebbero stati chiusi. Tutti erano dispiaciuti perché la festa si stava animando, ma Tony non poté fare a meno di chiamare Accio, per avvisarlo della necessità di partire.

Vincenzo M. D'Ascanio, brano tratto dal romanzo "Eclissi"