mercoledì 3 giugno 2015

Prefazione.



M’è piaciuto molto, e per diversi motivi, leggere il nuovo romanzo di Vincenzo D’Ascanio, a cui sono grato di avermi dato la possibilità di scrivere la prefazione.
Il primo motivo è il più importante: m’ha fatto pensare, m’ha divertito, m’ha fatto insomma compagnia, il che è quanto si richiede da un buon libro.

Il secondo è che Vincenzo ambienta nella mia città vicende molto metropolitane, calabili senza forzature in altri contesti urbani, e questo mi fa sentire la città in cui sono nato, vivo e lavoro come parte del villaggio globale, moderna, “connessa” si potrebbe dire, le conferisce insomma una sorta di valore aggiunto restando, per le descrizioni dei luoghi e di alcuni comportamenti sociali, inconfondibilmente Cagliari.

Il terzo motivo è legato al lavoro che faccio, lo psichiatra.
Il modo in cui la sofferenza del protagonista Riccardo viene affrontata, così estraneo al luogo comune della depressione come patologia biologica, sentenza a vita perché conseguenza di un gene malato e che a vita per questo richiede trattamenti farmacologici, mi ha confortato.
E’ una sofferenza a mio avviso correttamente interpretata come sentinella di un vuoto di valori ragione di riflessioni ed approfondimenti temuti, e per questo sinché possibile evitati.

Il conformismo della famiglia del protagonista omologa e irrigidisce i personaggi, rendendoli immutabili nel tempo, e a questa sclerosi, a differenza della sorella che vi si adatta, Riccardo reagisce “producendo” un sintomo, l’ansia, che progressivamente, per esaurimento, si fa depressione.
Ma, soffocando nella rigidità, avidamente (ed all’inizio inconsapevolmente) si affida con coraggio a quel filo d’Arianna che è Francesca, in uno dei primi incontri oracolo d’una verità non facile da accettare: l’io è fluido, mutevole, cambia in base alle nostre esperienze, alle nostre relazioni, e non può trovare realizzazione soddisfacente in modelli preconfezionati.

Il resto del romanzo è la dichiarazione di una seconda verità, altrettanto difficile da vivere e forse ancora più lontana dall’ariflessivo paradigma del tutto e subito (nel quale rientra il mito della pillola della felicità): l’abbandono della dimensione esistenziale inautentica lontana dai nostri bisogni più profondi per il traguardo della libertà d’essere sé stessi richiede tempo, esperienze, sofferenza, quando lo si voglia raggiungere rifiutando i panni di un narcisismo irriguardoso.

E dunque nella vivacità della narrazione il doloroso incedere delle vicissitudini di Riccardo, il tempo che Francesca chiede per le sue decisioni perdono le caratteristiche d’incomprensibilità e distanza che alla malattia mentale attribuisce il modello medico, freddamente osservatore ma incapace di comprendere, per assumere una vicinissima valenza esistenziale, un senso condivisibile di necessità al quale nessun essere umano può sottrarsi nel tentativo di conquistare sé stesso.
Ed altrettanto condivisibile ed in questo senso comprensibile m’é parso allora il teatro dei personaggi che circondano e sostengono i due protagonisti.

Maschere dai caratteri forti, rappresentano tanto tipi psicologici quanto la possibilità di nutrimento e ricchezza sempre presente nell’incontro con la diversità, nel dialogo con chi è altro da noi, non importa con quanta ambivalenza e fragilità portato avanti quando questo avvenga con sensibilità e partecipazione.

Ecco dunque a mio avviso in questa volontà di comprendere, di rivivere con i personaggi e nei personaggi il delicato tema della sofferenza psichica la cifra del romanzo: la malattia si muta nella dolorosa fatica della ricerca, e della scoperta, della propria identità.
Peregrinare dall’esito forse incerto, ma pieno di fascino se vissuto nella consapevolezza della propria umana finitezza.

Tanto ancora resterebbe da commentare: il movimento edipico che governa le relazioni familiari; l’attraente potere gravitazionale del trauma fisico, sempre presente nei romanzi di Vincenzo D’Ascanio, così attuale, così indicativo del nostro bisogno d’eterna adolescenza; il tema della sfida, evento utile alla crescita solo se imprevedibile nei risultati… e altro ancora cene sarebbe.
Ma come il mio collega così ben descritto nelle pagine avanti, non ho che un piccolo ruolo in questo evento creativo, e volentieri lascio spazio alla fantasia dell’autore.


Riccardo Curreli

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